Capitolo I - Il Lupo

ULTIMA SERA

La vecchia locanda era piena di gente. In una fredda sera di autunno inoltrato, nel villaggio di Fringen, ai margini nord-occidentali del regno di Dremlund, non c'erano molte cose che gli abitanti del piccolo paese potessero fare per rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro.
L'atmosfera, nella locanda "Il lupo nero", era allegra e chiassosa: nel camino in fondo alla grande sala il fuoco ardeva alto, riscaldando l'intero locale dalla volta in legno; sui lunghi tavoli scuri, consumati dall'uso, gli avventori giocavano a dadi o conversavano ad alta voce, bevendo fiumi di birra scura dai grandi boccali o piccoli sorsi di sirto, il fortissimo liquore distillato da alcune erbe dei boschi vicini.
A Lewin piaceva quell'atmosfera: si traduceva per lui in maggior lavoro, dovendo servire un gran numero di tavoli, ma l'allegria generale era contagiosa e Lewin aveva proprio bisogno di un pò di serenità.
Inoltre anche il suo padrone Aral, l'oste della locanda, sarebbe stato di buon umore, visto l'incasso della serata, e forse non l'avrebbe picchiato, dopo la chiusura.
Il pensiero delle botte, quasi quotidiane, fece ripiombare Lewin nel consueto stato d'animo di tristezza e di sconforto. La vita, per il povero ragazzo di quattordici anni, non era mai stata facile: i suoi genitori si erano da poco trasferiti nel villaggio quando, durante una delle alterne fasi della guerra, un'improvvisa incursione dell'esercito imperiale aveva raggiunto il villaggio. Le forze del regno di Dremlund, dopo giorni di combattimenti, riuscirono a respingere l'attacco, ma il villaggio dovette pagare un duro prezzo: parecchie decine furono i morti, e tra questi figuravano anche i genitori di Lewin Talamor.
Il ragazzo a quel tempo aveva solo sette anni, e poche possibilità di sopravvivere: erano tempi duri per il villaggio di Fringen, come pure per tutte le altre zone di frontiera tra il regno di Dremlund ed il grande impero di Argan.
Per fortuna di Lewin, la moglie dell'oste della locanda "Il lupo nero" si mosse a compassione, vedendo il bambino camminare spaurito ed infreddolito per la via principale del paese. La donna decise di prenderlo nella locanda, dove già lavoravano altri ragazzi, tutti più grandi di Lewin, che servivano ai tavoli, cucinavano, lavavano le stoviglie e pulivano le stanze in cambio di vitto e alloggio.
Lentamente Lewin cominciò a riprendersi dallo shock per la tragedia subita, anche se gli scherzi a volte cattivi dei suoi compagni più grandi lo lasciavano spesso impaurito e mortificato.
In quel periodo, le uniche manifestazioni di calore umano erano le parole e le attenzioni gentili della moglie dell'oste che, forse per la mancanza di un figlio, aveva cominciato a benvolerlo, suscitando l'invidia degli altri ragazzi.
Purtroppo, appena un anno dopo la morte dei genitori di Lewin, la donna si ammalò di polmonite e peggiorò rapidamente, spirando in poco meno di un mese.
La vita, per Lewin, diventò quindi l'inferno in cui ancora si trovava, e dal quale non vedeva via d'uscita. Aral, l'oste, un tipo chiuso e taciturno, dopo la morte della moglie cominciò a bere e a diventare violento, sfogando le sue improvvise crisi d'ira sui ragazzi e su Lewin in particolare.
Il giovane aveva spesso pensato di scappare via, di andarsene dalla locanda e dal paese, di fuggire da quell'atmosfera opprimente. Purtroppo, però, la vita sarebbe stata molto difficile per un ragazzo senza alcun mezzo di sostentamento, ed alla fine Lewin aveva sempre deciso di rimanere in gabbia, evitando di affrontare una fine quasi certa.
Anche quella sera, comunque, il pensiero di una fuga gli ritornava di continuo in mente, mentre portava i grossi boccali di birra o sparecchiava i tavoli momentaneamente vuoti. Per distrarsi, Lewin concentrò la sua attenzione sugli avventori dell'osteria: si trattava, per la maggior parte, di abitanti del paese e di contadini delle fattorie a sud di Fringen, che sarebbero ritornati presto alle loro case per potersi alzare all'alba il giorno successivo. Tre o quattro tavoli erano occupati da forestieri, giunti proprio quel giorno a Fringen; dal comportamento, dagli abiti e dalle grosse balestre da caccia Lewin capì che alcuni erano cacciatori di passaggio, diretti verso le montagne ad est in cerca di alci e di selvaggina di grossa taglia; gli altri erano invece un gruppo di soldati del regno di Dremlund, costituenti una pattuglia inviata in rinforzo nella zona a nord di Fringen, ormai relativamente tranquilla in quella fase dell'interminabile conflitto.
Mentre Lewin sparecchiava uno dei tavoli vicini a quelli dei soldati, uno di questi si voltò e si rivolse a lui: " Hei tu, ragazzo, porta dell'altro arrosto di cinghiale".
Lewin si diresse verso la cucina e si fece dare dal cuoco un'altra grossa pentola con i manici in legno, appena tolta dai vecchi fornelli a legna. Sotto l'occhio vigile dell'oste, che ne annotò silenziosamente il prezzo sul conto, Lewin portò la pentola al tavolo del soldato che l'aveva richiesta, passando tra gli altri tavoli pieni di gente.
Uno degli avventori, un contadino che veniva spesso alla locanda, ormai ubriaco per la birra ed il sirto bevuti, si accasciò improvvisamente all'indietro, scivolando dallo sgabello e cadendo davanti ai piedi di Lewin. Il ragazzo incespicò mentre stava alzando la pentola per poggiarla sul tavolo, e perse l'equilibrio.
Mentre cadeva a terra, la grossa pentola gli sfuggì di mano, rovesciandosi addosso a due soldati seduti al tavolo vicino. I due si girarono più sorpresi che arrabbiati, ma quando si resero conto delle condizioni in cui erano ridotte le giubbe ed i pantaloni delle loro uniformi si rivoltarono contro Lewin.
Il giovane, rialzandosi, tentò di balbettare delle scuse, ma uno dei due lo afferrò dietro il collo e lo mandò nuovamente a rotolare per terra, tra le risate generali. "Non ti azzardare a metterla sul conto, quella pentola!" - gridò il comandante della pattuglia, un ufficiale, rivolto all'oste che arrivava di corsa passando tra i tavoli.
"Non vi preoccupate, signore, ve ne farò portare subito un'altra"- rispose prontamente l'uomo con un finto sorriso sulle labbra, mentre afferrava a sua volta Lewin dietro il collo trascinandolo via, quasi di peso, verso la cucina.
Quando superarono la porta che separava l'ampio locale principale della locanda dalla stretta e fumosa cucina, l'oste si girò ringhiando verso il ragazzo: "Adesso basta, piccolo bastardo, ne ho abbastanza di te! Se non sei capace di portare una pentola non mi servi a niente!".
Attraversando la cucina sotto gli sguardi preoccupati del cuoco e degli inservienti, l'oste Aral raggiunse la porta secondaria della locanda e spinse fuori Lewin, mandandolo a rotolare nel fango: "Sparisci e non farti più vedere da me, buono a nulla!".
Lewin rimase intontito per alcuni minuti, seduto al freddo nella stradina laterale. Il rumore improvviso di una finestra che si apriva bruscamente ruppe il silenzio della sera, e Lewin si vide cadere addosso i suoi abiti, il suo sacco e le poche cose che possedeva, lanciategli dall'oste. La finestra si richiuse, ed il successivo silenzio risuonò nelle orecchie del ragazzo più forte di qualsiasi rumore.
Meccanicamente il giovane raccolse le proprie cose sparse attorno a lui e le mise nel vecchio sacco pieno di buchi. Poi, rendendosi improvvisamente conto del freddo pungente, si coprì con la sua vecchia mantella sbrindellata e si incamminò verso la strada principale.
Arrivato nella piccola piazza del paese, deserta per l'ora tarda e per il freddo che anticipava l'imminente inverno, Lewin si lasciò cadere in ginocchio e cominciò finalmente a piangere.
Rimase lì per alcuni minuti, dopo di che si alzò, continuando a piangere, ed incominciò a correre senza una meta precisa, con il sacco che gli sobbalzava sulla schiena. In breve tempo raggiunse i margini del paese; la fioca luce che illuminava la strada, filtrando dalle finestre delle case, creava ombre minacciose davanti al giovane, ma Lewin continuò a correre, infilandosi in un sentiero che si dipartiva dalla strada e lasciandosi ben presto il paese alle spalle.
Il sentiero si dirigeva verso le montagne ad est, e la luce della luna piena lasciava intravedere al ragazzo, nonostante gli occhi pieni di lacrime, i contorni del paesaggio. In breve tempo, però, il sentiero si addentrò nei fitti boschi che circondavano Fringen, ed il giovane perse l'orientamento. La luce della luna filtrava debolmente tra le chiome dei grandi abeti e le ombre scure dei rami degli alberi circondavano ed inseguivano Lewin come altrettanti fantasmi, aumentando, se possibile, la sua disperazione.
Il ragazzo corse come un forsennato per tutta la notte, in preda ad emozioni così forti da impedirgli di formulare qualsiasi pensiero coerente; la fatica ebbe il sopravvento su di lui poco dopo il sorgere del sole, ed il Lewin si accasciò dietro il tronco di un grosso albero, coprendosi con la mantella di lana ripiegata in due per difendersi dal freddo.

PRIMO GIORNO

Il giovane cervo era affamato. Con l'avvicinarsi dell'inverno il cibo cominciava a scarseggiare, e tutti gli altri cervi del branco erano già migrati in zone più ricche di pascoli, che non sarebbero rimasti coperti dalla neve per tutto l'inverno.
Lui era rimasto solo, ad aspettare la guarigione di una ferita alla zampa posteriore sinistra che gli aveva impedito di tenere il passo degli altri. Già due volte aveva respinto con le giovani corna gli attacchi di animali predatori, una volta una piccola lince e un'altra un vecchio puma, per fortuna molto vecchio.
Adesso però cominciava a sentirsi spossato per la fame e la stanchezza: doveva migrare al più presto, altrimenti non avrebbe più avuto forze sufficienti per farcela.
All'improvviso, un odore inatteso quanto delizioso arrivò alle sue narici: bacche, bacche dolci e saporite. Il giovane cervo seguì l'odore tra gli alberi ed i cespugli finché vide tra le foglie del sottobosco un mucchietto di rametti pieni di bacche; un cervo più anziano si sarebbe insospettito e sarebbe stato diffidente, ma non certo lui, spinto dalla fame dovuta a tanti giorni di stenti.
Si precipitò sulle bacche e cominciò a mangiarle, muovendo inavvertitamente un ramo che fece scattare la trappola. Il tronco sottile di un piccolo albero vicino, piegato come una molla, scattò senza preavviso, ed una fune scura si strinse intorno alle zampe posteriori del cervo.
L'animale non ebbe il tempo di reagire ed in un attimo si trovò sospeso per metà in aria, senza capire cosa fosse successo. Il cervo, in preda al panico, si dibatté per diversi minuti, ottenendo solamente il risultato di stringere ancor di più la fune intorno alle zampe e di sprecare le sue ultime energie. Alla fine si abbandonò, esausto, al suo destino.

*      *      *

Lewin si svegliò poco dopo mezzogiorno, intirizzito dal freddo e con un gran mal di testa. Aprì gli occhi lentamente e sollevò il lembo della mantella che gli copriva la testa. Nel punto in cui si trovava, il grosso tronco dell'albero lo riparava dal vento che si era alzato in mattinata, ma Lewin distingueva chiaramente le folte chiome degli abeti che ondeggiavano sotto le violente raffiche. Si trattava del freddo vento del nord, che portava con sé nuvole scure cariche di pioggia e neve.
Il giovane non era un cacciatore o un taglialegna, ma bastava poco per capire che in poche ore si sarebbe scatenata una tempesta. Fu in quel momento che Lewin prese la sua decisione: non sarebbe mai più tornato a Fringen, a costo di morire di fame e di freddo in quei boschi. Meglio una morte rapida che una lenta agonia quotidiana.
Il solo pensiero di non rivedere più l'oste Aral lo fece sentire meglio, nonostante la situazione disperata. Lewin respirò profondamente e si mise a riflettere, godendosi quell'attimo di serenità. Certo, morire era una via d'uscita dai suoi problemi, ma se si fosse potuto evitare sarebbe stato meglio.
Il giovane non era pratico di quei boschi, ma si ricordava di aver sentito spesso dai cacciatori di passaggio alla locanda che le montagne ad est di Fringen erano piene di grotte piccole e grandi. Una grotta sarebbe stata un buon posto per ripararsi dalla tempesta, pensò il ragazzo anche se, a dire il vero, i cacciatori dicevano anche che quelle grotte erano piene di orsi grigi.
In quel momento, comunque, neanche il pensiero di un orso grigio preoccupava Lewin più di tanto e, d'altra parte, non gli sembrava di avere molte alternative. Stringendosi il più possibile nella mantella per mantenersi caldo, il ragazzo si incamminò a passo svelto verso est.
Le montagne più vicine e meno aspre distavano alcune ore di cammino, ma per fortuna di Lewin il tempo rimase incerto ancora per tutto il pomeriggio; solo quando ormai il giovane intravedeva in lontananza alcuni anfratti sulle pendici delle montagne ormai incombenti cominciarono a cadere grosse gocce di pioggia mista a neve. Lewin, sebbene stanco e privo di energie, accelerò ulteriormente il passo, con la sola forza dei nervi a sostenerlo ancora in piedi.
Era ormai a meno di un centinaio di passi da quello che sembrava l'ingresso di una caverna, seminascosto tra la vegetazione sul pendio della montagna, quando una sagoma strana attirò la sua attenzione. Lewin strinse gli occhi, cercando di capire di che cosa si trattasse; dopo pochi secondi si accorse, con grande sorpresa, che si trattava di un piccolo cervo, stranamente sospeso a testa in giù in mezzo ad un folto gruppo di alberi. Subito gli venne in mente l'immagine dei cervi cucinati alla locanda, infilati a rosolare nel lungo spiedo annerito sopra il grande braciere di pietra.
Lewin si mise a correre come un forsennato, spinto dalla fame, e giunto a pochi passi dal cervo si accorse della fune e dell'esca sistemati con abilità da qualche cacciatore, forse proprio uno di quelli presenti il giorno prima alla locanda. Il giovane ringraziò mentalmente il cacciatore e si accinse a slegare le zampe posteriori della bestia, morta da non più di qualche ora.
Subito dopo il tonfo con cui l'animale cadde per terra in maniera scomposta, Lewin sentì alle sue spalle un altro, inquietante rumore; il giovane si sentì gelare il sangue nelle vene e si girò lentamente: era l'inconfondibile ringhio sordo di un lupo delle montagne.
Lewin non aveva mai visto un lupo delle montagne, ma l'animale era lo spauracchio in tutte le favole dei bambini di Fringen, ed il giovane non ebbe difficoltà a riconoscerlo: era grosso quasi come un vitello, scuro anche se non proprio nero e dalla bocca semiaperta sporgevano fauci lunghe come le dita di Lewin.
Impietrito dal terrore, il ragazzo sperò che la belva fosse interessata più al cervo che a lui; il lupo avanzò a passi lenti, uscendo dai cespugli e continuando a ringhiare; dietro di lui, seminascosti nella vegetazione, si intravedevano altri due lupi avvicinarsi minacciosamente. Il giovane si ricordò di aver sentito una volta alcuni cacciatori discutere sulle tecniche di caccia dei lupi delle montagne: attaccavano sempre in branco, e di solito cercavano di circondare le loro prede per prenderle poi alle spalle.
In quel momento, Lewin sentì qualcosa colpirlo violentemente alla schiena: una parte della violenza del colpo fu attutita dal sacco, che ancora portava sulle spalle, ma il ragazzo si ritrovò comunque sdraiato tra le foglie del sottobosco, senza fiato; sopra di lui, a pochi centimetri dal viso, incombeva il muso di un altro lupo, con le possenti mascelle aperte e pronte ad azzannare.
Il giovane, stranamente sereno, recitò mentalmente una preghiera e chiuse gli occhi; per alcuni secondi sentì sul volto il respiro caldo della belva, ma non successe nulla. Sorpreso, Lewin riaprì gli occhi e si accorse che il lupo aveva voltato la testa: qualcosa aveva attirato la sua attenzione.
Il ragazzo seguì lo sguardo della belva, ed un fruscio tra i cespugli annunciò che qualcosa o qualcuno stava sopraggiungendo. Con lentezza, una grossa sagoma nera uscì dal sottobosco: sul momento, date le dimensioni, Lewin pensò che si trattasse di un orso, ma subito dopo riconobbe l'inconfondibile procedere di un altro lupo. Il ragazzo non credeva ai suoi occhi: era una belva enorme, immensa, grande più del doppio degli altri lupi delle montagne, i quali già erano più grossi della specie comune nei boschi delle pianure di Dremlund.
Probabilmente la spalla del lupo superava l'altezza di Lewin, se il ragazzo fosse stato in piedi, ed il manto era di colore completamente nero, senza alcuna macchia ad interromperne l'uniformità.
Subito nervoso, il lupo che minacciava Lewin si allontanò di qualche passo, lasciando spazio alla belva immensa che si fermò accanto al ragazzo, ancora steso a terra. L'enorme lupo, senza aprire la bocca, emise un ringhio che risuonò nell'aria come il brontolio basso e profondo di un tuono lontano, e davanti agli occhi stupefatti del giovane gli altri lupi si voltarono e si allontanarono obbedienti, svanendo tra gli alberi.
Infine, la belva si voltò verso Lewin: fu allora che il ragazzo notò gli occhi del lupo. Erano rossi, di un rosso intenso e, nell'ombra del bosco, brillavano come se all'interno ci fosse una vivida luce, come qualcosa di incandescente.
Lewin provò una strana ed inquietante sensazione, come se qualcosa o qualcuno esplorasse la sua mente. Dopo alcuni secondi il lupo si voltò, disinteressandosi del giovane, e con un balzo lungo almeno dieci passi sparì tra i cespugli.
Perplesso, Lewin si sollevò a sedere: il tutto si era svolto in meno di cinque minuti. All'improvviso si ricordò di non avere tempo da perdere: rimandò a dopo ogni considerazione su quello che era appena successo e si concentrò sul da farsi. Aveva smesso di piovere, ma le cupe nubi basse facevano intendere che si trattava solo di una breve pausa; Lewin afferrò per le zampe la carcassa del cervo e cominciò a trascinarla verso la caverna.
Impiegò all'incirca una decina di minuti, e fu gradevolmente sorpreso di notare che la grotta era piccola ed asciutta, e soprattutto priva di occupanti ostili. Lasciato il cervo ed il sacco, si precipitò di nuovo fuori: la pioggia precedente aveva bagnato il terreno, ma vicino ai tronchi degli alberi il letto di foglie cadute, riparate dalle chiome, era rimasto asciutto. Lewin raccolse mucchi di foglie secche e li trasportò nella caverna, dopo di che staccò i rami più bassi dagli alberi, accatastandoli all'ingresso della grotta, finché un violento scroscio di pioggia annunciò l'imminente temporale autunnale, ed il giovane si ritirò al coperto.
Esausto, si riposò per alcuni minuti, finché la fame non lo fece rimettere al lavoro; Lewin non aveva mai posseduto cose di valore, ma alcuni degli oggetti che erano nel sacco costituivano, in quella situazione, autentici tesori. Il giovane aprì il sacco e ne estrasse un contenitore in legno; all'interno, nascosto in un rotolo di stracci, si trovava un robusto ed affilato coltello che il giovane era riuscito a sottrarre dalla cucina alcuni mesi prima, sotto il naso del cuoco. Nascosti allo stesso modo, dentro rotoli di vecchi stracci, c'erano anche una piccola scure, aghi e filo per cucire, una pietra focaia ed una piccola coperta di lana, tutto ciò che Lewin era riuscito a raccogliere in previsione della sua fuga, sempre desiderata ma mai realizzata.
Qualsiasi utensile in ferro, come il coltello o la scure, aveva un certo valore a Fringen, lontana dalle miniere di ferro del sud, e Lewin era sicuro che l'oste non li avrebbe mai lanciati dalla finestra, se avesse saputo della loro presenza all'interno del sacco. Il ragazzo prese il coltello e si accinse a scuoiare il cervo; non era un'operazione facile, ma alla locanda si faceva così spesso che il giovane era sicuro di poterlo fare anche ad occhi chiusi.
Mezz'ora dopo, finito il lavoro, Lewin raccolse alcune pietre dal fondo della caverna e le dispose in modo da formare un piccolo focolare all'ingresso della grotta, e vi dispose sopra i rami più secchi; ricoprì infine il tutto con delle foglie e si mise all'opera con la pietra focaia. Dopo alcuni tentativi, una scintilla accese le foglie secche ed ingiallite, ed in breve tempo il fuoco si propagò ai rami sottostanti; Lewin tagliò una grossa fetta di carne dai quarti posteriori del cervo e la sistemò ad abbrustolire sopra il piccolo falò.
Mentre aspettava impaziente che la carne si cuocesse, notò che fuori aveva cominciato a nevicare; in quella stagione, la nevicata poteva durare alcune ore, o una settimana o addirittura un mese, ma il giovane non aveva più neanche le energie per preoccuparsi, dopo tutto quello che era successo. La carne era ancora abbastanza cruda quando Lewin la addentò con impazienza, ma non si ricordava di aver mai assaggiato una bistecca così gustosa, e con un tale sapore di libertà. Le prospettive per il futuro non erano buone, anzi, forse non esistevano proprio prospettive per il futuro, ma Lewin, finito di mangiare, si coprì con la coperta e la mantella e si addormentò tranquillo vicino al fuoco, godendosi il calore emanato dal piccolo falò.
Fuori dalla grotta, la nevicata continuava sempre più fitta, mentre le tenebre della sera calavano sulle montagne e sui boschi come un freddo mantello nero.

SECONDO GIORNO

L'indomani mattina Lewin si svegliò poco dopo il sorgere del sole; il fuoco era ormai quasi spento, ma le ceneri ancora calde avevano contribuito a difenderlo dal freddo della notte, ed il ragazzo si sentiva abbastanza rinfrancato e su di morale, dopo tutto quello che era successo.
Pur avendo solo quattordici anni, Lewin aveva già ricevuto numerose dure lezioni di vita nel corso degli anni precedenti, ed aveva raggiunto un livello di maturità ben superiore a quello della sua età anagrafica. In quegli istanti, mentre i suoi occhi guardavano l'alba del suo primo giorno di vera libertà, Lewin diventò un uomo.
Si fermò alcuni istanti a riflettere, prima di alzarsi: aveva smesso di nevicare, ma il terreno e le chiome degli abeti erano coperti da un candido manto di neve. La cosa più saggia da fare, in quel frangente, era accumulare la maggior quantità di cibo possibile; Lewin si intendeva di radici, essendo andato spesso a raccoglierle nei boschi assieme al cuoco, per la cucina della locanda. Sapeva distinguere quelle commestibili dalle altre, e sapeva come scavare per raccoglierle, ma non poteva sperare di sopravvivere tutto l'inverno mangiando radici. Scappare via non era una possibilità: Fringen era un villaggio piuttosto isolato e comunque, anche in un altro paese, Lewin avrebbe dovuto dipendere dalla carità altrui, una cosa che non avrebbe più accettato.
L'unica possibilità era quella di catturare degli animali con cui cibarsi, e continuare a vivere nei boschi, per conto suo. Si ricordò della trappola che aveva catturato il cervo: la prima cosa da fare era andare a rimetterla in funzione, sperando di intrappolare qualche altro animale; con gli stracci che aveva con sé avrebbe costruito altre funi, e con esse altre trappole da sistemare nei dintorni.
Lewin balzò in piedi e si mise al lavoro: si coprì alla meglio per difendersi dal freddo, prese gli stracci e si recò sul posto in cui era scattata la trappola. Dopo notevoli sforzi, riuscì a rimetterla a posto, comprendendone nel contempo il funzionamento. Lacerò ed annodò quindi i suoi stracci per costruire un paio di altre funi, prese con sé un pò di bacche che erano avanzate e si mise alla ricerca di altri alberi con rami abbastanza flessibili da consentirgli di piazzare ulteriori trappole.
Per sua fortuna, le nubi scure rimasero inattive per tutto il pomeriggio, ed il ragazzo ebbe il tempo di realizzare il suo progetto prima del tramonto del sole. Mentre ritornava verso la caverna, stanco ma soddisfatto, una macchia scura sulla bianca distesa di neve che ricopriva il fianco della montagna attirò la sua attenzione. Da lontano non sembrava altro che un gruppetto di cespugli, ma la nevicata precedente avrebbe dovuto ricoprirli.
Lewin decise di indagare e, mentre si avvicinava, le macchie assunsero contorni ben definiti; il ragazzo si mise a correre ed arrivò sul posto senza fiato: davanti a lui giaceva il cadavere divorato di un essere umano.
Evidentemente il branco di lupi del giorno prima aveva trovato quella mattina una nuova preda, e l'uomo era stato meno fortunato di lui. A pochi metri dal cadavere irriconoscibile giacevano le carcasse di due lupi, trafitti da altrettante grosse frecce nere: l'uomo doveva essersi difeso prima di cedere al branco, pensò Lewin, e subito gli venne in mente il fatto che nei dintorni ci potesse essere la sua arma. Il ragazzo si mise subito a cercare, ed a poche decine di metri ritrovò la balestra e lo zaino del malcapitato.
La balestra era una delle più belle che Lewin avesse mai visto, con doppio arco metallico in grado di lanciare due frecce di seguito; ciò spiegava le carcasse dei lupi. Dopo averli uccisi, l'uomo si doveva essere reso conto di non avere più il tempo di ricaricare e quindi era scappato via, abbandonando in una fuga disperata la balestra e lo zaino. Il resto del branco non aveva tardato a raggiungerlo, e Lewin rabbrividì al pensiero dell'orribile fine toccata all'uomo; forse si trattava del cacciatore che aveva piazzato la trappola vicino alla caverna, pensò, e che stava tornando a controllare se aveva preso qualcosa. Comunque, lo zaino e la balestra non gli servivano più, mentre potevano essere preziosi per Lewin; il ragazzo se li caricò in spalla e si incamminò verso la grotta.
Prima che il buio completo scendesse sulle montagne fece in tempo a trasportare vicino all'entrata della caverna anche le carcasse dei due lupi: non aveva mai mangiato carne di lupo, ma era sicuro che la fame avrebbe fatto sembrare buona anche quella, non avendo altro da mangiare.
Con il calare dell'oscurità riprese anche a nevicare, ma Lewin aveva intenzione di lavorare per altre quattro - cinque ore. Riaccese quindi il fuoco all'ingresso della grotta, per riscaldarla ed illuminarla; il fuoco inoltre avrebbe tenuto lontano eventuali predatori, e Lewin si sentì abbastanza tranquillo ed al sicuro. Per prima cosa, cenò con un'altra grossa fetta di carne: le attività della giornata, infatti, lo avevano lasciato stanco ed affamato.
Finito di mangiare, tagliò il resto della carne di cervo in piccoli pezzi; sepolti sotto la neve, vicino alla caverna, si sarebbero congelati, evitando di marcire e venendo a costituire una durevole scorta per il futuro. Lewin tagliò quindi la pelle del cervo in strisce di varia lunghezza, stendendole quindi vicino al fuoco per farle seccare e per ottenere, in pochi giorni, qualcosa di simile al cuoio. La corta pelliccia, se fosse riuscito a trattarla nel modo giusto e a cucirla opportunamente con gli aghi che aveva con sé, lo avrebbe protetto dal freddo dell'inverno, consentendogli di sopravvivere.
Verso mezzanotte il ragazzo terminò il lavoro sulla carcassa del cervo e avrebbe voluto cominciare con quelle dei lupi, ma la stanchezza lo fece desistere: si stese sotto la coperta ed in pochi secondi si addormentò.

TERZO GIORNO

Il giorno successivo fu quasi di riposo: una fitta nevicata impedì a Lewin di allontanarsi dalla grotta, ed il ragazzo ne approfittò per organizzarsi un pò meglio: scuoiò e tagliò i due lupi uccisi dal cacciatore come aveva fatto con il cervo, mettendone la pelle a seccare vicino al fuoco e congelandone la carne tagliata in piccoli pezzi.
Lo zaino del cacciatore divorato dai lupi conteneva diverse cose utili: una calda e pesante mantella di lana grossa, due pentolini in ferro, un paio di stivali da neve, un pò di cibo ed una faretra piena di robuste frecce per la balestra. Quell'arma poteva essere la sua salvezza; Lewin la studiò a lungo, scoprendo infine come manovrare il verricello che armava i due potenti archi metallici. Sistemò quindi due frecce nelle scanalature del corpo principale dell'arma e piazzò un pezzo di legno come bersaglio, ad una decina di passi dall'ingresso della grotta; l'arma era pesante, soprattutto per un ragazzo di quattordici anni, ma Lewin riuscì comunque a mirare approssimativamente in direzione del bersaglio. Quando il giovane schiacciò il primo grilletto, un dardo partì velocissimo, andandosi ad immergere nella neve ad un buon passo di distanza dal pezzo di legno.
Il ragazzo si concentrò di più e schiacciò il secondo grilletto: questa volta la freccia si conficcò nel legno, seppur vicinissima al margine del bersaglio. Lewin continuò ad esercitarsi per tutta la mattina, recuperando ogni volta le frecce sotto la fitta nevicata e ottenendo, alla fine, discreti risultati.
Dopo un breve pranzo si rimise al lavoro sotto la neve, tagliando con la scure i rami degli alberi vicini per tutto il pomeriggio, incrementando così la sua riserva di legname. Sistemò poi i rami tagliati vicino al falò, per asciugarne l'umidità, e continuò a tagliar legna fino all'imbrunire. Dopo il tramonto preparò la cena sul focolare, con le braccia che gli dolevano per la fatica del lavoro con la balestra e la scure. Quando ebbe terminato, si prese un paio d'ore per rilassarsi e pensare, prima di mettersi a dormire. In una tasca dello zaino del cacciatore aveva trovato una pipa ed un pò di tabacco; alla locanda i cacciatori ed i contadini si rilassavano spesso vicino al grande camino, fumando pipe e grossi sigari neri, e Lewin provò il desiderio di fare la stessa cosa. Si sedette comodo sulla pelliccia del cervo, appoggiando la schiena sulla parete della caverna, ricoperta da un morbido strato di muschio; al di là della fiamma e del fumo del focolare intravedeva i contorni degli alberi vicini all'ingresso della grotta, imbiancati dai fiocchi di neve che continuavano incessantemente a cadere.
Con calma il giovane caricò la pipa, schiacciando un pò di tabacco sul fondo, e la accese con un rametto preso dal focolare. Le prime boccate di fumo lo fecero tossire, ma poi capì che il segreto era quello di tenere il fumo in bocca, senza respirarlo, e cominciò a fumare tranquillamente.
Fu allora che decise di ripensare al suo incontro con il Lupo; nonostante fossero trascorsi più di due giorni, il ricordo era vivissimo: a parte le straordinarie dimensioni della belva, quello che più lo aveva colpito erano stati i suoi occhi fiammeggianti, quasi sovrannaturali, che lo avevano scrutato facendogli provare la sensazione che fosse anche la sua anima ad essere scrutata. Lewin si ricordò improvvisamente della leggenda che aveva dato il nome alla locanda di Fringen: quando era ancora un bambino, la moglie dell'oste gli aveva raccontato che la locanda era stata chiamata " Il lupo nero " per via di una bestia misteriosa, una specie di Demone dalla forma di lupo, avvistato diverse volte nei boschi intorno a Fringen. Si trattava di un essere ferocissimo, gli aveva raccontato la donna, ma col tempo Lewin non aveva più sentito parlare di quella storia, e se ne era dimenticato. " Il lupo nero " rimase, per lui e per il resto del paese, solo il nome della locanda del villaggio, e dello strano essere si perse ogni traccia, finché non venne considerato altro che una leggenda con cui spaventare i bambini.
Evidentemente non era così, pensò Lewin, e la curiosità gli fece quasi desiderare un secondo incontro con la misteriosa belva.
" Chissà... " - disse ad alta voce, coprendosi con la coperta e scivolando pian piano in un sonno profondo.

DECIMO GIORNO

Quando si svegliò, poco dopo l'alba, Lewin fu sorpreso di veder splendere il sole; le nubi si erano dissolte ed il manto di neve che ricopriva ormai interamente le montagne e i boschi rifletteva in maniera abbagliante i raggi del sole: era la giornata ideale per andare a caccia, pensò il giovane, anche se non era mai andato a caccia in vita sua.
Due ore dopo, con la pesante balestra in spalla, arrancava faticosamente nella neve alta fino al ginocchio in una radura tra i boschi a nord della caverna dove aveva fissato la sua precaria dimora; di selvaggina, fino a quel momento, neanche l'ombra.
Una irregolarità sulla bianca distesa di neve attirò la sua attenzione: avvicinandosi, si rese conto che si trattava di una serie di impronte di zoccoli, che attraversavano in obliquo la radura. Lewin impiegò parecchio tempo a seguirle, rendendosi infine conto che esse si dirigevano verso un corso d'acqua che scendeva dalle pendici occidentali delle montagne.
Con sua grande sorpresa, il giovane si accorse che sulla riva del torrente si stagliava la sagoma di un grosso animale, intento a bere. Il grande alce non si era accorto di lui, forse per qualcosa che i cacciatori chiamavano "sottovento" e che Lewin non sapeva bene cosa significasse. Con il cuore in gola, il giovane riuscì ad avvicinarsi e a nascondersi dietro il tronco caduto di un vecchio albero, a non più di cinquanta passi dal grosso alce.
Lewin appoggiò la balestra sopra il tronco e cercò di mirare con precisione: in quel momento l'alce alzò la testa, ed il ragazzo si aspettò di vederlo fuggire da un momento all'altro. Per paura di perdere la preda tirò affrettatamente, e la freccia velocissima sibilò ben alta sulla testa dell'alce, andandosi a conficcare nel tronco di un albero addirittura sull'altra sponda del torrente.
Il sibilo ed il rumore sordo della freccia che si conficcava spaventarono l'animale, che si allontanò al galoppo dal corso d'acqua. In quel modo, l'alce si trovò a dirigersi esattamente verso Lewin il quale, allarmato, pensò che l'animale stesse caricando contro di lui.
Con gli occhi sbarrati, il ragazzo vide la sagoma dell'alce al galoppo farsi sempre più vicina e si lasciò prendere dal panico. Chiuse gli occhi e abbassò la testa al riparo del tronco, serrando nervosamente la mano sul manico della balestra. Così facendo, premette inavvertitamente il secondo grilletto dell'arma, e subito udì un tonfo sordo seguito da un silenzio innaturale.
Timorosamente alzò lo sguardo oltre il tronco, e con grande stupore si accorse che il grosso alce giaceva sulla neve in maniera scomposta a non più di dieci passi da lui: la grossa freccia nera fuoriusciva dalla fronte dell'animale, conficcata per una buona metà dell'intera lunghezza. Lewin non riusciva a credere di essere stato così fortunato: tirando senza volerlo, aveva colpito l'alce proprio in mezzo agli occhi, uccidendolo.
Il giovane rimase immobile e stupito per alcuni secondi, dopo di che si rese conto che sarebbe stato meglio darsi da fare: il grosso alce costituiva una riserva di carne che gli sarebbe bastata per buona parte dell'inverno, ma doveva riuscire a portarla presso la caverna prima che giungessero altri predatori, attirati dall'odore del sangue. Nascose quindi la balestra nei dintorni assieme allo zaino, e si dedicò alla carcassa dell'alce: la tagliò in quattro parti principali, corrispondenti agli arti del grosso animale, nascondendole nelle vicinanze sotto cumuli di neve. Fatto questo, trascinò ciò che era rimasto dell'alce fino al torrente e lo gettò nell'acqua, per farlo sparire prima che attirasse l'attenzione di un branco di lupi o di un puma.
Era ormai quasi mezzogiorno: gli rimanevano non più di cinque ore di luce, ma Lewin, sorretto da un'indomabile forza di volontà, riuscì a trasportare due dei quattro quarti di alce fino alla caverna, prima di sospendere per l'oscurità.
Alle prime luci dell'alba del giorno successivo tornò subito sul luogo della caccia, per scoprire che uno dei quarti di alce si trovava ancora dove l'aveva nascosto, mentre l'altro era stato dissepolto da qualche predatore notturno e trascinato via. Lewin preferì non indagare oltre e si affrettò a riportare il quarto superstite alla grotta, tornando poi a recuperare lo zaino e la balestra.
Concluse poi il pomeriggio andando alla ricerca di radici e funghi commestibili, finchè una violenta nevicata non lo costrinse a rientrare prima dell'imbrunire. Nonostante il tempo inclemente, il morale di Lewin era alle stelle: non poteva credere di essere stato così fortunato. Superare l'inverno gli era sembrato un'impresa impossibile, ma ora sentiva di avere buone possibilità: con la carne dell'alce, del cervo e dei due lupi aveva forse abbastanza cibo per arrivare in primavera, quando i conigli e le lepri si sarebbero svegliate dal letargo ed i caprioli ed i cervi sarebbero ritornati a pascolare in quelle zone, dopo il disgelo.
Nel frattempo, con un pò di radici da dissotterrare e qualche piccolo animale preso con le trappole, avrebbe potuto tirare avanti durante i rigidi mesi invernali. Il lavoro non gli sarebbe mancato: bisognava fare legna tagliando gli alberi, essiccare le pelli degli animali per farne cuoio, cucirsi con esso dei nuovi abiti e dei nuovi stivali, sorvegliare la carne congelata, preparare delle mantelle di pelliccia, esercitarsi con la balestra ed il coltello, costruire degli archi in legno e delle frecce di riserva ... tanto da fare, forse troppo per un ragazzo di neanche quindici anni, ma Lewin era felice: si sentiva un uomo, artefice del proprio destino, e aveva deciso che avrebbe sempre vissuto nei boschi, lontano dagli altri uomini e dalle loro meschinità, o sarebbe morto nel tentativo di farlo.
Quella sera, mentre fumava la pipa, Lewin Talamor aveva una strana espressione; si stava rendendo conto di essere cambiato, dopo lo sguardo del Lupo ...

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