SEI ANNI DOPO...
Capitolo II - La Vendetta
Emmeth Sandar si sentiva il cuore in gola; quella era la sua grande occasione: se fosse riuscito ad uccidere l'orso avrebbe dimostrato a tutti di essere un grande cacciatore, e nessuno lo avrebbe più preso in giro. L'ultima volta, alla locanda, i suoi amici lo avevano umiliato proprio davanti a suo figlio, ricordandogli tra le risate generali che la preda più grossa che avesse mai preso era stata una femmina di cervo: nessuno poteva considerarsi un vero cacciatore senza il trofeo di una pelle di orso.
Emmeth Sandar era uscito dalla locanda amareggiato ed infuriato, con suo figlio che gli trotterellava dietro, ed aveva giurato che non vi avrebbe fatto ritorno senza la pelle dell'orso più grosso delle montagne intorno a Fringen. Quel giorno stesso era partito per le montagne, portandosi dietro il ragazzo per riguadagnare il prestigio perduto ai suoi occhi.
Dopo una settimana di ricerche, aveva finalmente trovato le tracce giuste: era l'inizio della primavera e gli orsi, appena usciti dal letargo invernale, si recavano solitamente ai numerosi corsi d'acqua per andare a pesca di salmoni e trote. Proprio in prossimità di uno dei torrenti Sandar aveva individuato le impronte dell'orso, e le aveva seguite fino alla riva.
Nel corso d'acqua, in corrispondenza di un guado, un orso grigio tentava di procurarsi il pranzo: con potenti zampate sferzava l'acqua, ed i suoi sforzi erano talvolta premiati dai guizzi disperati delle prede artigliate e prontamente divorate.
Sandar sentì una scarica di adrenalina nel sangue; l'occasione era perfetta: al riparo dei cespugli vicino alla riva del fiume, l'orso non poteva vederlo, ed il cacciatore si trovava sottovento rispetto all'animale, il quale quindi non venne allarmato dall'odore umano.
Emmeth Sandar alzò la balestra e prese la mira; accanto a lui, suo figlio Karl scostò i cespugli per vedere meglio: il ragazzo indossava una pesante maglia di lana, che in quel momento portava aperta sul petto.
Il grosso medaglione d'argento, dono dei suoi nonni, splendeva sotto i raggi del sole primaverile, senza che il ragazzo se ne accorgesse.
Il vecchio orso aveva già pescato parecchi salmoni, ma il letargo gli aveva causato una fame difficile da colmare in breve tempo; la grossa trota che gli passò accanto sembrava proprio ciò che gli serviva, e l'orso si girò su sé stesso per artigliarla prima che scappasse. Mentre si girava, un riflesso luminoso proveniente dai cespugli vicini alla riva colpì la sua attenzione, e l'orso si fermò ad osservare. Stupito, riconobbe le due sagome umane che si intravedevano tra la vegetazione, e soprattutto il profilo minaccioso della balestra che una di loro aveva in mano.
L'animale si infuriò: ricordava ancora, a distanza di anni, la ferita al fianco che altri cacciatori umani gli avevano inflitto con un'arma simile, e ringhiò con rabbia verso Sandar e suo figlio, dimenticando la trota e la fame.* * *
Emmeth Sandar sentì la sua grande occasione sfuggirgli di mano: l'orso si era accorto di loro e stava ringhiando, pronto a scappare. L'uomo decise che non se lo sarebbe lasciato sfuggire; schiacciò il grilletto e la freccia partì, ma l'orso era in una posizione tale che le parti più vulnerabili del suo corpo erano coperte dalle robuste zampe. La freccia si conficcò in una spalla invece che nel petto, lontano dal cuore e dalla gola.
Sandar si accorse di aver sbagliato e bestemmiò sommessamente; con gesti febbrili manovrò la balestra per ricaricarla, ma l'orso si era ormai lanciato verso di loro a gran velocità, con la bava alla bocca.* * *
Il vecchio animale era in preda ad una furia cieca. L'improvviso dolore gli aveva ricordato la precedente ferita, ed in lui era scattato l'atavico desiderio di vendetta. Mentre si avvicinava inferocito, vide uno dei due umani, quello piccolo, girarsi e scappare, mentre il grande manovrava ancora quella misteriosa arma che mordeva a distanza.
* * *
Karl Sandar si girò quando sentì l'urlo di suo padre; era convinto che l'uomo stesse scappando con lui, ma quando si girò si accorse che il padre era rimasto sul posto per cercare di ricaricare la balestra, mentre l'orso stava sopraggiungendo. Con orrore, il ragazzo capì che suo padre non si sarebbe salvato: l'animale gli era quasi addosso.
Improvvisamente, tra le grida di suo padre ed il ringhio dell'orso, Karl udì un sibilo proveniente dalla vegetazione alla sua destra. Un attimo dopo, una freccia lunga e sottile si conficcò nel fianco della bestia proprio mentre questa, torreggiando sulle zampe posteriori, stava per artigliare Emmeth Sandar.
L'orso si voltò verso il folto del bosco, dove Karl vide emergere, con un agile balzo, una figura vestita di verde. L'animale cambiò le sue intenzioni e si lanciò furiosamente verso il nuovo venuto il quale, con tranquillità, poggiò un ginocchio per terra, incoccò una seconda freccia in un sottile arco di legno scuro ed attese.
Quando l'orso fu quasi sopra di lui, l'uomo vestito di verde lasciò partire la freccia; il dardo lungo e sottile colpì esattamente l'occhio destro dell'orso, si infilò nella cavità orbitale e fermò la sua corsa dopo essere penetrato profondamente nel cervello dell'animale: con un tonfo sordo, la bestia si abbatté pesantemente sul terreno, ai piedi dello sconosciuto.* * *
Emmeth Sandar lasciò cadere a terra la balestra, ormai inutile; suo figlio Karl tornò sui suoi passi, ed entrambi si avvicinarono al cadavere dell'orso, ed allo sconosciuto. Sandar era alto quasi due metri, e torreggiava sull'uomo vestito di verde, più basso di lui di diversi palmi.
Nonostante ciò, i freddi occhi verdi dello sconosciuto lo fecero sentire a disagio.
" Chi non sa come cacciare un orso, non dovrebbe provare a farlo, soprattutto se si porta dietro un ragazzino" - disse sorridendo l'uomo, ma i suoi occhi rimasero freddi. "
L'avevo quasi preso..., si é mosso all'ultimo momento!" - si difese Sandar.
" Sì, Sì..., certo. La prossima volta che vi capita, però, portatevi almeno una balestra a doppio arco" - continuò lo sconosciuto.
" Seguirò il vostro consiglio" - concesse Sandar - "e vi ringrazio per il vostro aiuto. Anzi, farò di più: vi concedo metà della pelle di questo animale. Io mi terrò la metà con la testa" - aggiunse con tono sicuro.
Il piccolo cacciatore socchiuse gli occhi, continuando a fissare Sandar, e la sua mano si mosse con noncuranza sul manico del grosso coltello da caccia che pendeva dalla sua cintura. " La pelle di un animale appartiene sempre a chi lo uccide, non ve lo hanno mai spiegato ? " - replicò lo sconosciuto, senza più sorridere.
" Signore, non mi sembra il caso di prendersela. In fondo, sono io che ho seguito le tracce e che l'ho colpito per primo..." " Raccogli la tua balestra e vattene, amico. Ho già perso troppo tempo con te " - lo interruppe bruscamente l'uomo vestito di verde, poggiando un piede sulla testa dell'orso.
Emmeth Sandar, preso in contropiede, rimase indeciso sul da farsi; poi, qualcosa gli suggerì che era meglio lasciar perdere. Si girò e tornò sui suoi passi, dirigendosi verso il luogo dove aveva lasciato la balestra e lo zaino; sentì su di sé lo sguardo accusatorio di Karl, e provò un profondo senso di vergogna, ma non gli sembrava di avere molte alternative. Raccolse la sua roba e si allontanò, seguito a breve distanza dal figlio.* * *
Lewin Talamor rimase a guardare i due che si allontanavano. " Che imbecille..., deve solo ringraziare il cielo di essere ancora vivo. Speriamo che il figlio non cresca come il padre, sarebbe un peccato" - pensò, vedendoli sparire nel bosco.
Quello era stato uno dei pochi contatti che Lewin aveva avuto con altri esseri umani, negli ultimi sei anni. Chiunque lo ricordasse dai tempi in cui viveva nella locanda di Fringen non lo avrebbe certamente riconosciuto: Lewin era ormai un uomo fatto e, anche se non imponente d'aspetto, aveva un fisico scattante ed agile come una molla e duro e resistente come il ferro; gli anni di vita nei boschi lo avevano temprato, dentro e fuori, ed i suoi nervi erano duri così come vivi erano la sua intelligenza ed il suo intuito.
Un'occhiata distratta non si sarebbe mai fermata su di lui, ma un osservatore attento avrebbe notato i suoi movimenti leggeri e potenti, e lo sguardo acuto e penetrante: un uomo da non sottovalutare, soprattutto nel suo ambiente naturale, le montagne ed i boschi. Ormai Lewin li conosceva come le sue tasche, e li considerava come suo territorio.
Si era spinto fino alle vette delle montagne più alte, perennemente innevate, varcando più volte l'aspro confine tra il regno di Dremlund e l'impero di Argan. A quelle altezze non c'erano pattuglie dei due eserciti, dato che era quasi impossibile resistere al freddo ed alla scarsezza di cibo, ma Lewin era ritornato vincitore dalle alte vette, dopo viaggi lunghi centinaia di miglia.
Aveva poi esplorato le intricate caverne sotto le montagne, scoprendo torrenti e laghi sotterranei, e considerava tutta la zona ad est di Fringen, per almeno una ventina di giorni di cammino, la "sua" riserva di caccia personale, come se anche Lewin fosse un grande animale da preda.
Nel corso degli anni, aveva incontrato diverse volte nei boschi gruppi di cacciatori, più raramente cacciatori isolati, e talvolta pattuglie dell'esercito del Re. In tali occasioni si era sempre tenuto alla larga dai soldati, mentre aveva più volte commerciato con i cacciatori provenienti da occidente. Le pellicce degli animali da lui abbattuti erano molto ambite, ed i cacciatori di passaggio le compravano volentieri, per poi rivenderle ad un prezzo maggiore una volta ritornati in città. Lewin sapeva che avrebbe potuto guadagnarci di più, ma non aveva alcuna intenzione di ritornare alla "civiltà", almeno per il momento, e comunque era riuscito ad accumulare un discreto gruzzolo di monete d'oro, in caso ne avesse avuto improvvisamente bisogno. Talvolta aveva barattato pellicce per utensili in ferro o balestre da caccia, le uniche cose che non riusciva a fabbricarsi da solo.
Tutto sembrava andare per il meglio, tutte le sue aspirazioni si erano finalmente realizzate eppure, mentre guardava padre e figlio allontanarsi verso la pista che li avrebbe riportati a casa, Lewin provò, per la prima volta, una sensazione di malessere. Era come se una punta di solitudine si fosse insinuata nella serenità del suo animo, e Lewin si fermò a pensare.
" Che cosa é che mi manca ? " - si chiese, e la risposta, per quanto inattesa, gli venne spontanea - " La rabbia... mi manca la rabbia di un tempo".
Il giovane si rese conto che la rabbia e l'odio che lo avevano spinto a fuggire e ad isolarsi erano ormai sfumate, assorbite dalla consapevolezza della propria maturità. I ricordi delle sofferenze patite erano ancora indelebili nella sua mente, e vi sarebbero rimasti per sempre, ma Lewin si accorse di non sentirsi più in guerra contro tutto il genere umano.
" Ma allora..." - il giovane fu colto da un'improvvisa emozione - "...allora forse... é arrivato il momento di tornare... tornare nel mondo degli uomini...".
Lewin avvertì anche un nuovo bisogno: da bambino, il suo mondo era ristretto al piccolo paese di Fringen, dal quale aveva deciso di fuggire; ma Fringen non era altro che uno sperduto villaggio del grande regno di Dremlund, e forse valeva la pena di viaggiare altrove, per visitare posti nuovi e conoscere meglio il mondo degli uomini.
" E' il momento di tornare " - ripeté a sé stesso. Adesso poteva farlo, poteva tornare a testa alta e farsi valere, in qualunque città del regno avesse voglia di andare.* * *
Il giorno dopo, Lewin Talamor guardò per l'ultima volta la sua casa.
Era una piccola capanna di legno costruita in una radura fra i boschi, piccola ma accogliente; dopo il primo inverno, infatti, Lewin aveva deciso di abbandonare la caverna e costruirsi una vera casa, con un po' di comodità.
Adesso se ne stava andando via, e non riusciva a districare il groviglio di emozioni che attanagliava il suo animo. Decise di voltarsi e di non guardare più indietro; il suo compagno di viaggio era un vecchio mulo, che aveva comprato da un cacciatore due anni prima, in cambio di tre pellicce d'orso. Era un animale paziente, e a Lewin piaceva. Era resistente come lui, e ciò ne faceva un compagno di viaggio ideale. Il giovane non lo cavalcava quasi mai, ma preferiva camminare davanti all'animale, tenendolo per le redini.
In quel momento, il mulo trasportava le poche cose che Lewin aveva deciso di portare con sé, infilate in due borse da soma in cuoio, cucite da Lewin stesso.
Fringen distava tre giorni di cammino dalla vallata in cui si trovava la capanna, ed il giovane si incamminò con passo svelto, lasciandosi i ricordi alle spalle.* * *
La prima impressione fu che il paese fosse diventato più piccolo; Lewin si fermò a qualche centinaio di passi dal villaggio, e restò per alcuni minuti ad osservare le case in legno dai tetti spioventi e dai camini aguzzi, sormontati da sottili volute di fumo che si innalzavano nel cielo privo di nubi.
Dopo un po' si rese conto che i confini del villaggio erano rimasti gli stessi; erano le case che gli sembravano più piccole di quanto ricordasse, ma ciò era dovuto al fatto che non le guardava più con gli occhi di un bambino.
Lewin si incamminò verso la strada principale di Fringen; dopo tanti anni, era sicuramente uno spettacolo piacevole: le case del paese avevano quasi tutte le tendine alle finestre, e piccoli balconi in legno si affacciavano sulla strada principale e sulle vie secondarie.
Vistose insegne in ferro battuto segnalavano le botteghe e gli empori, dai quali la gente del paese e i contadini delle vicine fattorie entravano e uscivano per sbrigare i loro affari. Lungo la strada carri piccoli e grandi, trainati da muli o cavalli, trasportavano i prodotti della terra, che consentivano a Fringen di continuare a vivere e prosperare.
Lewin legò il mulo ad una staccionata, staccò una delle borse da soma dalla groppa dell'animale ed entrò nell'emporio più grosso del paese; Han, il mercante, non era sicuramente capace di riconoscerlo, dopo tanto tempo; si avvicinò premurosamente, passando tra i banconi di legno carichi di merce in esposizione: " In che cosa posso servirvi, signore ? " .
" Ho un carico di pellicce di orso e di castoro da vendere, ma solo a buon prezzo " - disse Lewin, aprendo la pesante borsa da soma e mostrandone il contenuto. Vedendo la qualità delle pellicce, al mercante brillarono gli occhi: " Posso arrivare a venti scudi d'oro... sapete, ci sono molti cacciatori da queste parti".
" Ma non molte pellicce come queste, però. Venticinque scudi... e anche qualcosa d'altro". Lewin si avvicinò ad un bancone sul quale erano ammonticchiati alla rinfusa numerosi libri. Molte erano le persone che non sapevano leggere, nel regno di Dremlund, ma Lewin era stato fortunato: la moglie dell'oste, la sera, era solita dedicare almeno un'ora del suo tempo ad insegnare al piccolo Lewin a leggere e scrivere; all'età di dodici anni, il ragazzo aveva già un'istruzione superiore alla media degli adulti.
Tra i libri sparsi alla rinfusa, Lewin ne scelse due; erano tra i più vecchi, con i titoli che si leggevano a malapena: "Veleni" dell'abate Ector Crow e " Il mondo della natura e degli uomini", un grosso volume di un autore anonimo.
" Se prendete anche i libri, non posso darvi più di quindici scudi... sapete, i libri costano molto " - contrattò il mercante.
" Si, si, certo. Ecco perché li conservate così gelosamente " - disse ironicamente Lewin - " Ventiquattro scudi, più di libri ".
Dopo una decina di minuti si accordarono su ventuno scudi, più i libri. Lewin uscì soddisfatto dall'emporio e si diresse verso la bottega del fabbro. Quella del fabbro era una delle professioni più rispettate nel regno di Dremlund. I fabbri erano coloro che costruivano utensili con il ferro, e soprattutto armi e armature. Anche in un piccolo villaggio come Fringen, la bottega del fabbro conteneva una vasta esposizione di balestre, spade, scuri da guerra, elmi, armature e coltelli.
Lewin aveva le idee chiare su cosa comprare: non aveva velleità da guerriero, e perciò lasciò perdere spade, scuri, elmi ed armature, peraltro molto costose. Vendette anche la sua balestra a doppio arco, che aveva da tanti anni e che trovava un po' troppo pesante, e comprò l'articolo migliore in vendita nella bottega: una magnifica balestra, interamente in ferro. Anche se era ad un solo arco, e quindi poteva tirare una sola freccia alla volta, la balestra era potentissima, ed aveva due ulteriori vantaggi: era molto leggera e, a differenza delle normali balestre con arco in ferro e corpo in legno, si poteva smontare velocemente in due pezzi: arco e corpo, che risultavano di ridottissimo ingombro e di facile occultabilità.
Lewin comprò anche cinque affilati coltelli da lancio, dopo averli provati. Erano ben bilanciati, ed in mano ad un tipo come lui potevano essere molto pericolosi.
Alla fine, si trovò a spendere quasi trenta scudi; il gruzzolo che aveva da parte, comunque, ammontava a più di cinquecento scudi d'oro: una discreta somma, soprattutto per uno che non aveva quasi bisogno di soldi per vivere.
Uscì dalla bottega con la nuova balestra sistemata a tracolla dietro le spalle, apprezzandone la leggerezza e la compattezza, e soprattutto il fatto che si mimetizzasse perfettamente sotto il mantello di lana che Lewin indossava. Il giovane riprese il suo vecchio mulo dove l'aveva lasciato e si diresse, infine, verso la locanda "Il lupo nero".
Rivedere la vecchia osteria ebbe su di lui un notevole effetto: Lewin rimase a guardarla per parecchi minuti, prima di entrare. In alto, al piano superiore, la finestra più a destra di tutte era quella della stanza dove aveva dormito per tanti anni, insieme agli altri ragazzi, ed era sporca come sempre. D'altra parte nulla sembrava essere cambiato, dalla pesante porta in legno massiccio con i bordi consunti alla vecchia lanterna ad olio sospesa sopra l'entrata, o all'insegna scolorita rappresentante la testa di un lupo.
Come sempre, dall'ingresso laterale, quello della cucina, proveniva un delizioso odore di stufato di selvaggina; Lewin si sentì pronto per entrare, e spinse la porta.
Erano le quattro del pomeriggio, e la grande sala era occupata da pochi clienti; si trattava, secondo Lewin, di commercianti di passaggio, che avevano già sbrigato i loro affari e si godevano un po' di riposo conversando e giocando a dadi.
Dalla cucina uscì un giovane, che si diresse verso Lewin. "Cosa desiderate, signore!"- chiese educatamente. Lewin lo riconobbe: era uno dei ragazzi che lavoravano alla locanda già ai suoi tempi, uno arrivato poco prima che Lewin fosse cacciato. Era molto improbabile che il ragazzo lo riconoscesse, dopo tanto tempo e con la barba che Lewin aveva deciso di lasciarsi crescere.
" Il mio mulo è qui fuori, dovreste portarlo nella stalla e dargli da mangiare. Mi fermerò qui per la notte. Spero che la cucina sia buona".
" Vedrete che la nostra cucina è ottima, signore. Desiderate dormire da solo, o vi va bene la sala comune ? ".
" Mi va bene la sala comune".
" Allora il prezzo è mezzo scudo d'oro, compresa la cena e la biada per il mulo ".
Lewin accettò, posando lo zaino vicino ad un tavolo vuoto. Il cameriere si congedò, annunciando che la cena sarebbe stata servita a partire dalle ore cinque.
Lewin si sedette ad un angolo del lungo e consumato tavolo in legno, sistemò lo zaino vicino a sé e ne estrasse la pipa ed il tabacco dalla tasca laterale; appoggiando la schiena alla parete, la accese e tirò con piacere le prime boccate, guardando la sala in cui aveva lavorato per tanti anni: anch'essa gli sembrava più piccola di quanto ricordasse, e meno accogliente.
Prese poi dallo zaino uno dei libri che aveva comprato: "Veleni" dell'abate Ector Crow. Lo aveva scelto non come passatempo, ma con uno scopo ben preciso: nei boschi del regno di Dremlund si potevano trovare piante di tutti i tipi, alcune delle quali molto velenose. Il libro, già dalle prime pagine, si dimostrò molto chiaro. Il giovane riconobbe numerose specie di piante, da lui incontrate nei boschi in cui aveva vissuto; di alcune ne conosceva la tossicità, di altre si meravigliò che l'aspetto innocente nascondesse la reale pericolosità. In particolare, lo colpì un paragrafo dedicato alle misture tra estratti di piante diverse. Il vecchio abate Crow, nel corso dei suoi esperimenti, era arrivato a scoprire diverse cose interessanti; quella che a Lewin sembrò più utile fu la seguente: pestando le foglie e i rametti di due piante abbastanza comuni nel sottobosco, la toropula e la vietendra, si ottengono due infusi che sono tossici, ma non mortali. Mescolandoli, si produce invece un veleno molto potente, in grado di uccidere un uomo nel giro di pochi secondi.
Bastava intingere la punta di una freccia nel veleno e lasciarla asciugare, pensò Lewin: avrebbe ottenuto un'arma terribile.
Smise di leggere un'ora più tardi, dopo aver letto le raccomandazioni dell'abate sulle precauzioni da seguire quando si maneggiano dei veleni.
Mentre puliva la pipa, il giovane notò che l'atmosfera, nella locanda, si era ormai riscaldata; i tavoli erano quasi tutti occupati, ed i grossi boccali di birra venivano allegramente vuotati in pochi sorsi.
Come al solito, la maggior parte degli avventori era costituita da gente del luogo, con l'eccezione di un gruppo di forestieri che sembravano, ad una prima occhiata, una piccola banda di mercenari; Lewin li contò: erano in nove, e piuttosto male in arnese. Nonostante gli abiti consunti, però, avevano con loro pesanti balestre, corte spade appese alla cintura ed un paio sfoggiavano anche dei corpetti in ferro, piuttosto consumati dai colpi evidentemente ricevuti.
I camerieri della locanda, nel frattempo, cominciarono a fare la spola tra la cucina ed i tavoli, portando piatti e grosse pentole colme di stufato di selvaggina. Nonostante fosse diventato egli stesso un buon cuoco, Lewin dovette ammettere che la cucina della locanda era all'altezza della sua reputazione: lo spezzatino di cinghiale era delizioso, e la birra scura scendeva giù dando una piacevole sensazione di benessere.
Mentre intorno a lui la gente parlava e giocava a dadi, il ragazzo rimase tranquillo a mangiare, ascoltando le conversazioni dei vicini.
Venne così a conoscenza degli ultimi sviluppi della guerra tra il regno di Dremlund e l'impero di Argan. La guerra, che durava ormai da quasi venti anni, era quasi ad una svolta: dopo essere stata combattuta prevalentemente nelle grandi pianure orientali, senza apprezzabili risultati per una parte o per l'altra, qualcosa stava cambiando nell'andamento delle ostilità.
Le forze imperiali avevano intrapreso delle azioni offensive con l'intento di penetrare in profondità nella parte nord-occidentale del regno di Dremlund, passando ad ovest del grande massiccio dei Monti Uroni che rappresentava, per un buon tratto, il confine tra i due Stati. Se l'iniziativa avesse avuto successo, l'esercito imperiale sarebbe piombato nelle zone più ricche del regno, prima che le forze di Dremlund avessero la possibilità di reagire in modo adeguato. Il grosso dell'esercito reale era ancora sul fronte orientale, e ci sarebbe voluto del tempo per spostarne una parte ad Occidente; in un tale contesto, la zona a nord di Fringen aveva acquistato una notevole importanza strategica, perché costituiva il "collo di bottiglia" attraverso il quale sarebbe dovuto passare l'esercito imperiale. Se questo fosse arrivato a Fringen, avrebbe avuto di fronte le ampie pianure meridionali del paese, dove costituire una linea di difesa sarebbe stato estremamente difficile. Nella zona critica, la principale forza difensiva del regno era la guarnigione del castello di Klaghen, già sotto pressione da diversi giorni.
Mentre Lewin stava ascoltando l'opinione del fabbro del paese, seduto al tavolo accanto, il quale sosteneva che Fringen sarebbe presto stata invasa dall'esercito imperiale, la pesante porta in legno della locanda si aprì.
I tre nuovi venuti incuriosirono il giovane; era evidente che si trattava di soldati dell'esercito reale: sotto il mantello verde indossavano i corpetti in ferro con lo stemma di Dremlund, portavano delle scuri da guerra appese alla cintura e due di essi avevano a tracolla potenti balestre a doppio arco. Il terzo, che portava delle insegne sulla corazza, aveva appesa alla cintura, oltre alla scure, una lunga spada dal manico finemente ornato. Da questo e dall'evidente qualità del suo equipaggiamento Lewin concluse che il nuovo venuto dovesse essere un ufficiale di grado abbastanza elevato, che viaggiava con due soldati come scorta per la sua incolumità.
"Probabilmente sono diretti al castello di Klaghen" - pensò il ragazzo, guardando i tre che si sedevano ad un tavolo e ordinavano la cena.
Due ore dopo Lewin decise di andare a dormire. Mentre raccoglieva le sue cose, vide l'ufficiale rivolgersi ad un cameriere, il quale andò in cucina e ritornò subito dopo accompagnato dall'oste Aral.
La vista dell'oste lasciò Lewin turbato: pensava di aver dimenticato tutto, o per lo meno di averci messo una pietra sopra, ma l'odio nei confronti del suo ex-tiranno riaffiorò immediatamente. Vide Aral parlare con deferenza all'ufficiale, il quale estrasse dalla borsa un sacchetto pieno di monete d'oro e ne allungò tre all'oste.
Probabilmente si trattava del prezzo per una camera singola, siccome gli ufficiali non dormivano mai nelle stanze comuni. Con la coda dell'occhio, il giovane notò che il gruppo di mercenari si era fatto improvvisamente attento e silenzioso. I due con i corpetti in ferro, evidentemente i capi della banda, si lanciarono un'occhiata silenziosa, mentre l'ufficiale riponeva nella borsa il sacchetto con le monete d'oro; poi, ripresero tutti a bere come se niente fosse successo.
Lewin pensò che non erano fatti suoi, ma un'idea si fece strada nella sua mente, e continuò a rimurginarla mentre saliva al piano di sopra, verso la stanza comune.
Il locale era ampio e ben riscaldato da un grande camino, il cui fuoco costituiva anche l'unica fonte di luce. Diverse persone stavano già dormendo, e Lewin scelse silenziosamente un posto vicino al camino dove sistemò il sacco a pelo.
Dieci minuti dopo stava già dormendo, con la mano destra che stringeva un coltello sotto il cuscino.* * *
Il giovane si svegliò molto presto, verso le quattro del mattino. Senza fare rumore, raccolse la sua roba e scese al piano di sotto, dove uno degli inservienti, assonnato, stava terminando le pulizie del locale.
Lewin pagò il conto e si fece portare il mulo davanti all'ingresso; prima di andare via, chiese all'inserviente se il gruppo di forestieri della sera prima fosse già ripartito, ed il ragazzo della locanda gli rispose che i nove mercenari avevano lasciato l'osteria un paio d'ore prima.
Lewin attraversò quindi il paese, immerso nel silenzio e nell'oscurità, dirigendosi verso nord; lasciate le ultime case, legò il mulo ad un albero poco lontano dalla strada e ritornò furtivamente sui suoi passi. Poco dopo era di nuovo vicino alla locanda, però dalla parte posteriore, dove si trovava la stanza dell'oste Aral.
Come Lewin si aspettava, nella stanza al primo piano era accesa una luce: Aral stava sicuramente facendo i conti dell'incasso della sera precedente, come era sua abitudine. Lewin prese un sasso da terra e lo tirò contro la finestra; il rumore di vetri infranti ruppe il silenzio della notte, e subito dopo la figura massiccia di Aral Gurnisson si affacciò alla finestra. "Chi è stato?"- gridò l'oste, reggendo in mano una lanterna per illuminare la strada sottostante.
"Sono stato io, Aral. Ti ricordi di me? Sono Lewin Talamor".
Sorpresa e curiosità si disegnarono sul volto dell'oste, ma ben presto si tramutarono in paura, quando Lewin sfilò agilmente da sotto il mantello la nuova balestra. Aral non ebbe il tempo di reagire, e la freccia scagliata dall'arma lo raggiunse in mezzo agli occhi, attraversandogli il cranio. L'oste cadde all'indietro, e Lewin sputò per terra, prima di allontanarsi e sparire come un'ombra nell'oscurità.
Tre ore dopo, al sorgere del sole, Lewin era in viaggio su di un sentiero parallelo alla strada che conduceva verso nord. Dal sentiero era in grado di osservare la strada, e di accorgersi dell'arrivo di chiunque; in quel modo, avrebbe avuto il tempo di nascondersi e sparire nel bosco, prima di essere individuato. Non che avesse paura di essere arrestato dalle guardie del re: la piccola guarnigione del posto di polizia di Fringen non brillava certo per eccesso di zelo; lo sceriffo avrebbe presto archiviato il caso della morte di Aral come omicidio commesso da ignoti, e non c'era nulla che potesse portare le indagini verso Lewin.
Il giovane non provava rimorso per ciò che aveva fatto; anzi, si disse che forse aveva salvato altri ragazzi dalle ingiustizie e dai soprusi dell'oste.
Quel pensiero gli fece sentire la coscienza ancora più tranquilla, facendogli vedere ciò che aveva fatto non come vendetta, ma come giustizia.
In cuor suo, però, sapeva che non era esattamente così, che era difficile giustificare un omicidio a sangue freddo, ma a Lewin non importava: non voleva provare sensi di colpa.
Per dimenticare quei pensieri, concentrò la sua attenzione sull'ambiente circostante: i suoi occhi si muovevano in tutte le direzioni, alla ricerca di punti in cui fosse facile tendere imboscate. Nelle tre ore successive individuò numerose posizioni da cui eventuali assalitori avrebbero potuto attaccare chi viaggiava sulla strada, ma tutte risultarono vuote.
Lewin si fermò nel bosco per mangiare qualcosa, dopo di che si rimise in cammino; a circa cinquecento passi, la strada girava intorno ad una collina, immergendosi in una parte del bosco la cui vegetazione era più fitta del solito.
Prima di avvicinarsi, Lewin legò il mulo al ramo di un albero, e avanzò poi nel fitto del bosco con molta cautela; i suoi abiti da cacciatore erano di un colore che si mimetizzava perfettamente con l'ambiente, e gli anni di vita tra le montagne gli avevano conferito una capacità di muoversi che faceva di lui un'ombra vaga e silenziosa che scivolava tra il fogliame e gli arbusti del sottobosco.
Fu il rumore di un rametto spezzato ad attirare la sua attenzione: Lewin si avvicinò furtivamente al gruppo di cespugli da dove si era prodotto il rumore, ed individuò alcune figure umane nascoste nei pressi del bordo della strada. Il giovane aveva trovato quello che cercava e si immobilizzò per studiare la scena: era la banda di mercenari della sera prima, schierata per un agguato, che stava aspettando la propria vittima.
Lewin si mosse con molta lentezza per raggiungere una posizione che gli consentisse di dominare la situazione, e si sistemò dietro il tronco di una quercia centenaria ad aspettare, tenendo sotto controllo i nove tagliagole.
Dopo un'ora, si sentì un rumore di ruote lungo la strada, e ben presto un carro di contadini, trainato da una coppia di buoi, apparve a poche centinaia di passi. Per fortuna dei tre contadini che erano a bordo, i mercenari ignorarono completamente il carro, tenendosi nascosti e confermando, nei pensieri di Lewin, il fatto che il bersaglio dell'agguato fosse ben più importante.
Poco tempo dopo infatti, un leggero rumore di zoccoli sul selciato della pista ruppe la consueta monotonia dei rumori del bosco. Lewin distinse le sagome di tre cavalieri profilarsi all'orizzonte: a quella distanza, non era ancora capace di riconoscerli, ma era praticamente certo che si trattasse dei soldati che avevano pernottato alla locanda.
L'ufficiale seguiva ad una ventina di passi i due soldati di scorta, i quali procedevano uno a destra e l'altro a sinistra della strada, scrutando la vegetazione circostante. Sembravano abbastanza esperti, ma Lewin non era sicuro che fossero capaci di evitare l'imboscata; ad ogni modo, lo avrebbe scoperto tra poco.
Giunto quasi all'altezza del luogo dell'agguato, il soldato di destra sembrò notare qualcosa di strano, e sì fermò alzando la mano destra; il capo della banda dei mercenari, per non perdere il vantaggio della sorpresa, ordinò l'assalto.
Tre grosse frecce partirono dai cespugli, andando a colpire i tre cavalli dei soldati, che rimasero appiedati ad affrontare l'attacco del grosso della banda. I due soldati raggiunsero l'ufficiale e si disposero ai suoi fianchi, tirando con le balestre contro gli assalitori; due mercenari caddero al suolo, ma i rimanenti quattro piombarono addosso agli avversari, i quali prepararono gli scudi e le scuri da guerra per lo scontro ravvicinato. Il pericolo maggiore per i soldati era costituito dai tre balestrieri, che li costringevano a coprirsi con gli scudi per intercettare eventuali frecce, senza poter usare gli scudi stessi per parare i colpi delle mazze ferrate degli altri assalitori.
La strategia dei mercenari poteva funzionare, pensò Lewin, e decise di intervenire; la sua prima freccia colpì alla schiena uno dei balestrieri, e prima che gli altri si rendessero conto di che cosa fosse successo, Lewin, lasciata la balestra ed imbracciato il leggero arco di legno, tirò una seconda freccia.
L'arco era molto meno potente della balestra ma, se la vittima non indossava alcuna protezione, era comunque in grado di infliggere gravi ferite.
In quella situazione, non c'era tempo per ricaricare la balestra e la scelta di Lewin si rivelò vincente: con la seconda freccia colpì al fianco un secondo balestriere, mentre il terzo ed ultimo puntò la balestra verso il giovane. Prima che il mercenario potesse colpirlo, Lewin rotolò alla sua destra, sparendo tra i cespugli.
Nel frattempo, i tre soldati stavano fronteggiando i quattro assalitori superstiti; nonostante l'inferiorità numerica, le loro armi erano migliori ed i mercenari non potevano più contare sull'appoggio dei balestrieri. L'ufficiale parò con lo scudo un colpo di mazza ferrata, e si lanciò verso uno degli assalitori: fintando un colpo di spada alle gambe, fece abbassare al mercenario che aveva di fronte il piccolo scudo di legno rinforzato, e poi partì con un affondo di punta. La lama della spada passò sopra il bordo dello scudo e colpì il mercenario alla spalla sinistra, trapassando il corpetto. L'uomo urlò di dolore, ma l'ufficiale lo colpì nuovamente alla base del collo, caricando il colpo con un ampio e potente movimento circolare. La lama affilatissima tagliò di netto la testa dal collo del mercenario, sul cui volto rimase impressa un'espressione di sorpresa e di dolore.
Nello stesso istante, un colpo di mazza ferrata ferì al fianco destro uno dei due soldati di scorta, perforando la sua corazza, ma il mercenario che lo aveva colpito fu subito trafitto alla gola dall'altro soldato.
Adesso la situazione era decisamente a favore dei soldati, e i due assalitori superstiti cominciarono ad indietreggiare, cercando la protezione dell'ultimo balestriere rimasto. Questi stava ancora cercando di individuare Lewin tra i cespugli, ma il giovane fu più veloce: comparendo come per incanto da una direzione inaspettata, scagliò una freccia prima che il mercenario potesse puntare la balestra e lo colpì al basso ventre, sotto il corpetto di cuoio rinforzato. L'uomo lasciò cadere l'arma e si accasciò al suolo, urlando di dolore.
I due mercenari superstiti, con tre soldati di fronte ed un arciere alle spalle, capirono di non avere più alcuna speranza e deposero le loro armi, arrendendosi: lo scontro era terminato.
L'ufficiale, prendendo il controllo della situazione, diede l'ordine al soldato rimasto incolume di legare i due mercenari e di farsi dire dove fossero nascosti i loro cavalli; fatto ciò, si dedicò a prestare le prime cure al soldato rimasto ferito. Uscendo dai cespugli, Lewin si avvicinò ai due guerrieri: " Quando viaggiate, signore, non dovreste far vedere in una taverna una borsa piena d'oro come la vostra " - disse, rivolto all'ufficiale.
" E' vero, é stato un errore " - rispose quest'ultimo, alzando lo sguardo dal ferito - " e se non fosse stato per il vostro aiuto, avrebbe potuto essere l'ultimo errore della mia vita. Vi ringrazio molto". Dopo aver sistemato una benda sul fianco del soldato, l'ufficiale si alzò in piedi e tese la mano al giovane: " Sono Erik Fendor, Cavaliere Comandante nell'esercito del Re " - disse, guardando Lewin dall'alto in basso; la sua testa, infatti, superava quella di Lewin di una buona ventina di centimetri, e con la corazza sembrava grosso il doppio del giovane. Nonostante questo, nella sua voce non c'era traccia di arroganza e la sua stretta di mano era ferma e sicura. " Ve la cavate molto bene con le frecce, dovete essere un ottimo cacciatore ". " Non mi lamento, ho una buona mira" - disse Lewin, rispondendo alla stretta di mano con altrettanta fermezza e guardando il cavaliere dritto negli occhi.
Un rumore di zoccoli li fece voltare verso il bosco, dal quale uscì l'altro soldato con al seguito i cavalli della banda dei mercenari.
" Siamo diretti verso nord " - disse Erik Fendor - " ed uno dei miei uomini é fuori combattimento. Che ne dite di unirvi a noi ? Un buon arciere ci farebbe comodo, e vi pagherei bene. Queste strade non sembrano molto sicure". Lewin accettò di buon grado la proposta: il suo desiderio di girare il mondo stava cominciando ad avverarsi.* * *